Ecuador. “Que linda gente!”: le cose si cambiano nel tempo, con rispetto.

Waorani, Tagaeri, Taromenane.
Siamo arrivati in quelle che erano una volta le loro terre, prima che il nostro progresso, ad iniziare dalla “fame” di petrolio, gliele ha portate via.

Puerto Francisco de Orellana, meglio conosciuta come El Coca. È una città cresciuta attorno a tre fiumi: il Napo, il Coca e il Payamino. È considerata la seconda città petrolifera dell’Ecuador dopo Lago Agrio. È qui che siamo arrivati, alle porte dell’Amazzonia.

Per provare a capire qualcosa sulla realtà di questi popoli non si può non visitare il piccolo museo che parla di suor Inés Arango e di Monsignor Alejandro Labaka, suo fratello di missione.


A noi questa storia la racconta Padre José Miguel Goldáraz, cappuccino spagnolo diAguarico.
È lui che il giorno dopo la morte dei due missionari è andato a recuperare i loro corpi.
È lui che ha dovuto estrarre dai loro corpi le lance lunghe 3 metri che li avevano uccisi: 17 lui, 3 lei.
È lui che per non lasciare le lance nelle mani dei militari se le è portate via, volando legato appeso all’elicottero. “Come Rambo” ci dice sorridendo. Uno dei suoi pochi sorrisi, in un volto sempre segnato dalla sofferenza di quei ricordi, anche se sono passati oltre 35 anni.

Le foto appese ai muri ripercorrono le tappe di questo percorso di missione che, come ci ricorda Padre José, non è un’avventura ma un lavoro, che implica vocazione, dedizione e rispetto per un’altra cultura: Monsignor Labaka adottò i costumi e gli usi della popolazione Waorani, visse in mezzo a loro nudo, come loro erano soliti fare, nel 1977 fu perfino adottato come figlio da una famiglia (Inihua il padre, Pahua la madre) con una ceremonia che consisteva in una carezza ed una pacca sulla spalla.

C’è una foto che immortala gli ultimi momenti di vita di Alejandro e Inés.
Lui guarda dritto in camera, mentre Suor Inés e ai bordi della foto, con le braccia conserte e gli occhi rivolti alla selva: Alejandro disse “se non andiamo noi, li uccideranno”. Sono entrambi in piedi di fronte all’elicottero di una compagnia petrolifera. Elicottero che il 21 luglio 1987 li porta nella giunga, sul territorio dei Tagaeri, dove andavano per fare da mediatori in questa lotta per la terra tra popolazioni indigene e petrolieri. L’elicottero sarebbe dovuto tornare dopo 15 minuti, ma gli operatori della compagnia petrolifera dissero che si erano persi. Difficile da creder con tutti gli strumenti di localizzazione che avevano a disposizione.

Sostiamo davanti alla foto dei loro corpi trafitti: lo sguardo di Padre José racconta tutto questo dolore, ma anche la sua forza. Il loro martirio ci lascia la responsabilità di un compromiso (un impegno). Aggiunge poi: “non dobbiamo fare in modo che la loro morte sia vana. Ma sappiamo che il petrolio e il governo non perdonano. Alejandro era dalla parte degli indigeni e dell’ecologia. La sua era una chiesa indigena, non cattolica romana.”

Accompagniamo Padre Josè nella cappella dove ci sono le tombe dei due martiri per una preghiera e poi lo seguiamo fino al Museo Macco (Museo Archeologico e Centro Culturale di Orellana).

Ci colpiscono le urne funerarie degli sciamani, che richiamano sempre il ventre di una donna, a simboleggiare la rinascita. Dopo la morte l’anima percorre il cammino dell’acqua, lungo il fiume, per salire attraverso le Ande verso il cammino delle stelle e giungere finalmente alla terra della pace. Così almeno la pensavano le popolazioni indigene.

E ci colpiscono le riproduzioni dei visi, schiacciati sulla fronte. Visi di luna, ci dice la nostra guida, che ottenevano pressando le fronti dei bambini con tavolette di legno.

Ci sarebbe poi da raccontare la bella storia di Apustolo, dell’enorme cedro nel mezzo della foresta, del rumore dell’acqua che arrivava dal suo tronco, dei pesci colorati e di ogni specie che vivevano al suo interno e di come da questo albero e dai suoi rami siano nati i 3 fiumi attorno i quali è nata questa città.

A El Coca oggi vivono popolazioni kechwa e meticce, tante credenze e tante tradizioni si sono ormai perse, forse mantenute solo dai Tagaeri e Taromenane, due ormai piccolissimi clan nomadi Waorani che vivono isolati nell’area del Parco Nazionale Yasunì. Isolamento che è la loro forma di proteggersi dal mondo occidentale.

Mentre nella selva qui intorno vivono le comunità di Waorani “contattati”: vuol dire che mantengono il loro modo di vivere, di vestire, di nutrirsi con quello che offre la foresta. Ma fuori dalla loro comunità comprano sale, metalli (pentole, asce, coltelli, …), per studiare i ragazzi vanno in città, accolgono turisti e visitatori locali e stranieri che vengono per conoscere la loro cultura e le loro tradizioni. Come noi, che dopo una navigazione di 1 ora e mezza lungo il Rio Napo arriviamo alla Comunità di Nueva Providencia.

Ci accolgono il Presidente della Comunità e una delle responsabili del gruppo di donne che guida il progetto di eco turismo “Yaku Kawsay”. A lui spettano compiti amministrativi, ma le protagoniste sono di nuovo loro.


Entriamo in una delle loro case tipiche: è certamente più grande in verità, ma è perfetta per accoglierci tutti. Ci colpisce subito il tetto, perfettamente intrecciato con bambù.
Di fronte al tupla, il camino con il fuoco acceso dove sta cuocendo il nostro pranzo (a base di pesce, avvolto in un cartoccio composto da foglie di bijao), Judith ci racconta il valore di questo progetto che esiste ormai da 16 anni. Lei è qui dal 2010, quasi dall’inizio praticamente.

Curiosi le chiediamo i dettagli di una giornata tipica. Sorridendo (chissà quante volte i turisti le rivolgeranno questa domanda) ci racconta la preparazione del cibo (come il maito, il maturo e la manioca). I bambini vanno a scuola e oltre alle materie comuni studiamo lo spagnolo. Kechwa e spagnolo, sono bilingue fin da piccoli.

A un km di navigazione da qui (o a 2 ore di cammino) ci sono un centro medico e altri servizi.
Judith ha tre figli, due dei quali frequentano l’università.

In questa comunità (6000 ettari di territorio, 115 abitanti, 21 famiglie) c’è tutto quello che serve per vivere bene. Si occupano di agricoltura, turismo, protezione degli animali e della natura, caccia e pesca.
Uno dei progetti più importanti è sicuramente quello di preservare la selva amazzonica che è una delle 10 zone con maggiore biodiversità al mondo. Ce lo raccontano attraverso la visita ad un piccolo museo dove troviamo bellissime riproduzioni in legno di delfini, caimani, anguille, tartarughe.


Torniamo nella capanna più grande e consumiamo il buonissimo pranzo che hanno preparato per noi. Ci sono anche piccoli spiedini fatti di cacao cotto sulla brace.


Ci incamminiamo poi all’interno della selva con Judith che indossa un paio di ciabatte (mentre solitamente si muove scalza) e porta con sé un coltello molto lungo per raccogliere qualche radice.
Restiamo incantati dai funghi colorati che spuntano in mezzo al verde rigoglioso. Spiccano quelli arancioni di forma circolare, e ci sono enormi formiche operose che catturano la nostra attenzione.
Il fango sotto i nostri piedi ci ricorda che siamo nella stagione delle piogge e dopo pochi minuti inizia la musica dell’acqua.
Siamo protetti dalla vegetazione per buona parte del tragitto, poi però la lluvia si fa sempre più intensa e siamo costretti a ripararci di nuovo nella sala principale.
Ci godiamo questo spettacolo d’acqua che fa danzare le foglie.
Alcuni di noi trascorrono qualche secondo sotto la pioggia, come fanno gli altri ragazzi della comunità con estrema naturalezza. Ci sembra una piccola follia, invece qui è tutto così naturale.



Solo gli indigeni possono salvare l’Amazzonia, a noi spetta il compito di sostenerli ma sono loro i protagonisti di questo percorso”.
Con queste parole di Bepi riprendiamo la navigazione, prima che tramonti il sole dobbiamo tornare a Coca.

Una volta in albergo, prima della cena, dedichiamo un lungo momento di riflessione sulle tematiche dell’Amazzonia. Bepi Tonello e Luis Hinojosa, Presidente e Direttore del Fepp (Fondo Ecuatoriano Populorum Progressio) che da sempre lavorano moltissimo per la sostenibilità ambientale in Amazzonia. Si tratta di processi, non di progetti ci ricorda Bepi. Le cose si cambiano nel tempo, con rispetto.

I temi sono importantissimi. Ora ne comprendiamo l’urgenza.


Ci raggiungono per cena alcuni compañeros del Fepp e come sempre la serata si trasforma in un momento di festa, con danze popolari e tantissimi giovani che portano avanti tradizioni e usi. Domani visiteremo un altro luogo simbolo della maledizione del petrolio. Domani impareremo nuove cose per fare la nostra parte per il buen vivir.

Federica Fracassetti
BCC Bergamasca e Orobica

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